Ancora su Cass. Civ. 27704 e 27705 2018: le bugie hanno davvero le gambe corte?

24/03/2021

Di seguito la prima parte di un articolo pubblicato su https://lnkd.in/dgvZ3ezb

Ed ecco che una menzogna, ripetuta più e più volte, pare essere riuscita a persuadere un intero collegio, la CdA di Torino  nella 184 del 15/02/2021, la quale, testualmente, così si esprime:

 

«L’esistenza del contratto di apertura di credito deve essere provata con la forma scritta e non può essere fondata su altri elementi come prove indirette, quali gli estratti conto, i riassunti scalari, i report della centrale rischi, la stabilità dell’esposizione, l’entità del saldo debitore, la previsione di una commissione di massimo scoperto, oppure voci quali “spese gestione fido” e “revisione fido”. Ai fini della individuazione delle rimesse solutorie e/o ripristinatorie – in mancanza di contratto scritto – il limite dell’affidamento non si può individuare nello stesso massimo scoperto consentito di fatto (Cass. civ., sez. 1, 30/10/2018 n. 27705).»

 

MAI, tuttavia, la Suprema Corte ha pronunciato quella massima.

 

Facciamo un passo indietro.

 

A maggio dello scorso anno (2020), mi lamentavo [1] del fatto che, in alcune difese bancarie, a supporto della tesi secondo la quale la prescrizione avrebbe dovuto agire come una “ghigliottina” per il periodo antecedente al decennio che precede l’introduzione della domanda giudiziale

 

(perché)

 

per dimostrare l'esistenza di un affidamento in capo al correntista sarebbe stato necessario produrre il documento contrattuale scritto

 

fossero ormai ripetutamente citate, a sproposito, due pronunce di Cassazione, la 27704/18 e la 27705/18.

 

Evidenziavo come, in realtà, in nessuna delle due pronunce della Corte di legittimità fossero presenti assunti del tipo «il fido di fatto è irrilevante» [2] e tantomeno «ove la banca eccepisca la prescrizione, incombe sul correntista l’onere di provare la natura ripristinatoria dei pagamenti e la relativa prova dovrà essere fornita unicamente allegando il documento contrattuale, non rilevando all’uopo – per come si evince nelle pieghe della sentenza – le c.d. “prove indirette” (ossia le evidenze degli estratti conto, i riassunti scalari, i report della centrale rischi, la stabilità dell’esposizione che ne evidenzia il carattere non occasionale, l’entità del saldo debitore, la previsione di una commissione di massimo scoperto).»[3]

 

Ebbene, a forza di insistere, le difese bancarie devono aver convinto la Corte di Appello di Torino ma la verità è che non troverete quelle parole né in Cass. 27704/2018, né in Cass. 27705/2018.

 

La Suprema Corte, semplicemente, aveva rilevato come in sede di legittimità non sarebbe stato possibile fornire ulteriori o nuove prove (ovvero chiedere un nuovo esame) rispetto al merito già esposto presso le corti territoriali.

A pagina 4 paragrafo 2.1 di Cass. 27705/18 si può difatti leggere che:

«Come palesa lo svolgimento del medesimo, ove ripetutamente assume in modo apodittico la natura solutoria delle rimesse, il ricorso mira a sottoporre alla Corte un nuovo giudizio sul fatto, precluso in sede di legittimità. In sostanza, il ricorrente insiste nella ritenuta disponibilità relativa ad un preteso affidamento di fatto: ma la Corte del merito ne ha risolutivamente escluso la prova».

 

In Cass. 27704/18, a pagina 2 si apprende che «La Corte [di appello ndr], per quanto ancora rileva, ha ritenuto, con l'ausilio di ctu, la natura solutoria delle rimesse effettuate, in quanto non è stata provata l'esistenza di un'apertura di credito o di affidamenti nel periodo considerato, con conseguente operatività della prescrizione decennale dai singoli versamenti.» concludendo a pagina 3 al paragrafo 2 «Come palesa lo svolgimento del medesimo, ove ripetutamente assuma la natura solutoria delle rimesse, il ricorso mira a sottoporre alla Corte un nuovo giudizio sul fatto precluso in sede di legittimità. [...] In sostanza, il ricorrente insiste nella ritenuta disponibilità relativa ad un preteso affidamento di fatto: ma la Corte del merito ne ha risolutivamente escluso la prova.»


Ciò che dunque appare evidente, è come in entrambe le vicende sulle quali Cassazione si è pronunciata, le corti di merito non avevano reputato che il correntista avesse provato di essere stato affidato e che un nuovo giudizio sul fatto sarebbe stato ormai stato precluso, in sede di legittimità.

 

Devo ammettere che quando lessi, per la prima volta i due articoli pubblicati sul web, rimasi piuttosto perplesso.

Strideva che la Corte di legittimità avesse effettivamente sostenuto la tesi voluta dalle difese bancarie.

Se non altro perché il cardine della disciplina sulla trasparenza bancaria è la tutela dell'utente bancario e la banca, certamente, non potrà avvalersi, a suo vantaggio, delle nullità di protezione previste dal TUB.

 

L'art. 127 comma 2 TUB prevede che "Le nullità previste dal presente titolo [cioè il Titolo VI ndr] operano soltanto a vantaggio del cliente e possono essere rilevate d'ufficio dal giudice"

 

Al capo I del Titolo VI ("Trasparenza delle condizioni contrattuali dei rapporti con i clienti") troviamo gli artt. da 115 a 120quater, e dunque anche il 117, il quale, al comma 1 impone che il contratto sia redatto per iscritto e sanziona, al comma 3, il caso di mancata osservanza della forma prescritta con la nullità del medesimo.

 

La Corte di Appello di Bologna nella sentenza nr. 2920/18 è stata certamente aderente a questi principi, tanto da esprimersi in questo modo: «Deve infine osservarsi, che provata l'esistenza di un affidamento, fornita anche solo mediante le comunicazioni periodiche inviate ai correntisti dalla banca, è precluso a quest'ultima eccepire la nullità del contratto per difetto di forma scritta, atteso che la norma è posta a tutela del solo cliente e non a favore della banca e se gli accordi tra le parti prevedevano degli interessi convenzionali maggiori di quelli legali, la banca avrebbe dovuto provarlo mediante la produzione della relativa pattuizione in forma scritta e non dolersi perché il contratto non era stato prodotto dall'appellata»

 

Così anche Cass. Civ. Sez. I nr. 31927/19 del 06/12/2019: «[…] a fronte dell’eccezione di prescrizione sollevata con riferimento alla domanda di ripetizione di indebito del correntista, è quest’ultimo ad essere onerato della prova dell’esistenza del contratto di apertura di credito, incidente sulla natura delle rimesse poste in essere oltre il decennio, fermo restando che il giudice del merito è tenuto a valorizzare la prova ritualmente acquisita al riguardo, indipendentemente da una specifica allegazione dei correntista circa la stipula del contratto in questione».

 

Dello stesso avviso, la recente Cass civ. III sez. nr. 25158/20 del 10/11/2020.

 

L’esistenza di un contratto di apertura di credito, dunque, non necessariamente deve essere provata (e tantomeno dal cliente bancario) con il contratto SCRITTO [v. Nota 4 in calce al presente articolo] e, a quanto mi risulta, la Cassazione non si è MAI pronunciata in senso contrario. Tutt’altro.


Ciò che ho letto nella pronuncia della CdA di Torino mi ha dunque lasciato assai amareggiato anche perché pare fondarsi, almeno in parte, su principi del tutto insussistenti, su una “fantasia” pubblicata sul web.


Particolarmente illuminata sul tema, ho trovato, invece, la sentenza del Tribunale di Padova del 31/08/2018 perché sposta l’attenzione sull’onere della prova: «[…] sarà onere della banca che sollevi l’eccezione di prescrizione indicare per quale somma detto affidamento sia stato accordato, perché solo con riferimento a detta somma potranno essere distinti contabilmente i versamenti solutori da quelli ripristinatori. Nel momento in cui nulla sia dedotto in giudizio e tanto meno dimostrato con riferimento alla soglia di affidamento, non potrà che concludersi con il rigetto dell’eccezione di prescrizione, non essendo stato possibile svolgere alcun accertamento al riguardo. Non è conferente il richiamo della banca al precedente Cass. n. 4372/2018, che ha affermato che chi solleva l’eccezione di prescrizione non è onerato anche dell’individuazione analitica delle “rimesse” solutorie, distinguendole dalle ripristinatorie. È invero del tutto condivisibile la tesi sostenuta, per cui la banca NON ha l’onere di indicare puntualmente i versamenti solutori, perché questi potranno essere ricostruiti con ctu contabile.

[La banca ndr] Ha l’onere però di sollevare l’eccezione di prescrizione in modo corretto e coerente con il corredo istruttorio disponibile in giudizio (ovvero corredata dai relativi presupposti in fatto), giacché, solo se l’eccezione è formulata in modo corretto, sulla base della stessa sarà costruito il quesito peritale; quindi – in sintesi - la banca non ha l’onere di individuare analiticamente i versamenti, ma ha l’onere di indicare (correttamente) il criterio sulla cui base individuarli tramite ctu contabile: il che significa, ad esempio, che, se si debba valutare l’eccezione di prescrizione con riferimento ai versamenti effettuati su di un conto affidato, la distinzione tra versamenti con natura solutoria e versamenti con natura ripristinatoria presuppone che sia nota la misura dell’affidamento, giacché solo i versamenti intervenuti a fronte di un saldo passivo superiore a detto importo assumono natura solutoria.

In conclusione sul punto, nel momento in cui si ritiene dimostrata l’esistenza di un affidamento, non è in assoluto impossibile discutere di eccezione di prescrizione e di versamenti solutori e ripristinatori: di tali concetti però – si ribadisce - si può discutere solo se sia nota una soglia numerica, oltre la quale i versamenti diventano solutori e cessano di essere meramente ripristinatori.»

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